Approfittando del lungo ponte di inizio maggio, io ed Hiro organizzammo un viaggio a 昆明市 Kunming, capitale della provincia dello 云南省 Yunnan. Nonostante le 6 ore di volo, la compagnia aerea Shandong airlines ci offrì gentilmente due biglietti andata e ritorno da Osaka a 228 euro ciascuno. Miss Li una volta ci aveva detto che Kunming era sede della primavera eterna, per via del clima temperato in qualunque mese dell’anno, e dei fiori sugli alberi ai lati delle carreggiate. E delle belle universitarie. Tanto era bastato ad Hiro per sceglierla come destinazione. Io invece ero stato attratto esclusivamente dal nome... il Kun accanto al Ming.
Avevamo prenotato una stanza con letto matrimoniale per l’equivalente di 20 euro al giorno, dunque 60 euro in tutto. Quando arrivammo nella via dell’albergo, 按空路 via Ankong, o Ancona, mi sorpresi appassionatamente per il fatto che non avesse per niente i tratti tipici della modernità cinese: palazzoni beige o grigi e insegne tozze sui negozi. Al contrario, la strada ricordava la litoranea di uno dei tanti paesini che affaccia sull’Adriatico, nonostante il mare disti almeno 300km da Kunming. Una lunga schiera di quadrati bassi e giallognoli, con stonanti tetti legno Cortina d’Ampezzo, chiudeva da un lato la via come un lungo serpentone; l’altro lato invece sfociava su un campo d’erba sporca, che proseguiva libero per km e km fino alla massa scomposta di alcuni palazzoni.
Erano le 15:00. Accanto all’hotel, oltre una discesa ruvida di cemento e urina di gatto, c’era un muretto e una palazzina di un piano e mezzo. Sulla sua facciata, accanto al portone, una grossa lanterna rossa appesa ci pregò di entrare in una tavola calda specializzata in 拉面 noodles. I tavolini all’interno erano tutti rotondi e pesanti come il legno scuro nella campagna di mia nonna, e Hiro, senza consultare i tre e unti fogli del menù, optò per un Ramen con brodo denso in stile giapponese. Io presi dei noodles con wan ton “Beijing style”.
- Shachō san, la cameriera non fa altro che guardarti. -
I quindici coperti della tavola calda erano presidiati da una giovane e vispa cameriera. Non indossava nessuna uniforme, ma solo una T-shirt nera e un pantalone nero, amplificando in questo modo la veste informale e familiare del locale. I suoi capelli erano neri e lunghi, legati a formare una cipolla disordinata; il viso era più scuro della media cinese, così come le labbra, che assumevano una tonalità sangria.
- Hello! Are you tourists? -
Le sue mandorle erano strette e saporite. Ma quando parlava, dagli occhi le usciva la stessa vitalità di un ragù che ribolle a fuoco lento. Hiro le rispose in cinese, ma lei non mi staccava lo sguardo di dosso. Per vincere l’imbarazzo le chiesi il nome, Yan Yan; lei ricambiò, Vitto.
I manicaretti erano intensi e corposi, e addirittura anche il coriandolo, in mezzo a quell’idillio di grano e brodo, sembrava squisito.
- Se non le chiedi il contatto, non ci muoviamo da qui. -
- Ma mi vergogno... -
- Yan Yan, the check please. And... he would like to ask for your wechat. -
Yan Yan abitava al primo piano sopra la tavola calda. Ogni giorno alle 21:45 il suo locale chiudeva la cucina, e alle 22:00 serrava le porte. Quella sera, mezzora dopo la chiusura, io ero già da dieci minuti seduto sul muretto; Yan Yan uscì dal portone del suo palazzo e mi venne incontro.
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